
MILANO – Il caso Dolce & Gabbana visto dalla prospettiva di Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Intervistati da Gian Antonio Stella, i due stilisti danno la loro versione sui processi pendenti per evasione fiscale (l’ultima sentenza, in primo grado, li condanna a 20 mesi di carcere; la penultima a una maxi multa di 343 milioni di euro) e sulle polemiche col Comune di Milano.
Sono giorni nervosi per i fondatori di una delle case di moda italiane più conosciute nel mondo, nervosismo che li ha portati a comprare un’intera pagina del Wall Street Journal per spiegare quanto li trattassero male i loro connazionali (brutto vizio italiano, andare all’estero per parlare male degli italiani).
“Valeva la pena di piantare tutto questo casino? «Tante briciole, dice il proverbio, fanno una panetteria», ribatte Domenico Dolce, «Era tutto un vocio fastidiosissimo…». «Ma scusi: come potevamo accettare di essere bollati come evasori? — irrompe Stefano Gabbana —. Noi siamo delle persone perbene. Viviamo in Italia, paghiamo le tasse in Italia, non facciamo finta di vivere all’estero…».
«Ci limitiamo a chiedere: vi pare possibile che per gli stessi identici fatti, sulle stesse identiche carte, possiamo essere assolti nei processi penali e condannati in quello tributario? […] non ci rassegniamo a essere crocifissi come dei ladroni».
G. «Per esempio io ho una barca, si chiama “Regina d’Italia”: non la porto mica in Francia o in Croazia! Non la intesto mica a una società! Non batte mica bandiera delle Cayman! Io sono italiano e la barca la tengo in un porto italiano. E batte bandiera italiana».
D. «Vale anche per me. Anni fa Stefano mi regalò un motoscafo Riva. Lo uso pochissimo, ma lo tengo a Portofino e batte bandiera italiana».D. «Mica fingo di vivere in Svizzera o a Montecarlo. Le mie residenze sono sempre state quelle: Polizzi Generosa, Palermo, Milano».
Dolce & Gabbana si difendono dall’accusa di essere scappati in Lussemburgo:
D. «Ci siamo decisi quando cominciammo a ricevere offerte da Vuitton, Gucci, Hdp… Dovevamo darci una struttura aziendale all’altezza di quanto eravamo cresciuti».
E così avete venduto il marchio, cioè il vostro tesoro, alla «Gado».
D. «Esatto».
Ma perché in Lussemburgo?
G. «Scusi, ma noi siamo un marchio mondiale. Non è che possiamo aprire in Cina o in Brasile appoggiandoci, faccio per dire, alla Cassa Rurale di Rogoredo».
Niente scatole cinesi?
G. «Macché scatole cinesi! […] Non abbiamo mica fatto le cose di notte! Tutto alla luce del sole».
D. «Tanto è vero che né la guardia di finanza né i magistrati ce l’hanno mai contestato».
Dicono però che 360 milioni per quel marchio celeberrimo nel mondo erano pochi.
G. «Ma cosa vuole che ne sapessimo, noi! […] Non eravamo neanche in grado di valutarne il valore. Infatti…».
…Chiedeste una stima a Price Waterhouse Coopers.
[…]
E qui nasce la grana: la finanza dice che la stima era bassa… Che valeva molto di più e si presume…
G. «Si presume, si presume… “Si presume che Domenico e Stefano si droghino”. “Si presume che lavorino in ufficio completamente nudi”[…]».
Fatto sta che secondo i magistrati il valore del marchio era oltre il triplo: 1.190 milioni. Una stima poi ribassata a 730 milioni...
[…] E se vi confermano la condanna a 400 milioni di multa?
D. «Chiudiamo. Cosa vuole che facciamo? Chiudiamo. Non saremmo in grado di resistere. Impossibile». […]
E adesso, col Comune di Milano?
G. «Ma mica ce l’abbiamo col Comune di Milano. Ce la siamo presa con l’assessore. Chi mai gli aveva chiesto qualcosa? Che motivo aveva per tirarci in ballo? […] E non vogliamo proporci come paladini di una rivolta contro il fisco. Per carità! Ma viviamo questa storia come una ingiustizia».
Che Giuliano Pisapia abbia liquidato la battuta del suo assessore come infelice e abbia ricordato che lui è sempre stato un garantista ha chiuso la ferita?
D. «Mai stati in guerra con lui».
