ROMA – “La storia delle Province da eliminare è lunga – scrive Vittorio Feltri sul Giornale – Dura dagli anni Sessanta,quando l’ipotesi di istituire le Regioni prese corpo come previsto dalla Costituzione ( la più bella del mondo? Ridicolo). Quasi tutti i partiti dell’epoca erano convinti: dentro le Regioni, fuori le Province, che avrebbero dovuto gradualmente cedere ogni attribuzione ai nuovi enti. Più che un convincimento generale, era un assioma”.
L’articolo completo:
La riorganizzazione cominciò con un trasferimento in massa (inizio anni Settanta) di personale dalle periferie provinciali ai centri regionali, che erano privi di dipendenti e non avrebbero potuto fare nulla ( non fanno nulla neanche ora).
La Democrazia cristiana, che in materia di gestione del potere era imbattibile, propose: mentre attendiamo che le Regioni vadano a regime, concludano cioè la fase di rodaggio, allo scopo di non arrecare disagi ai cittadini evitiamo di chiudere le Amministrazioni provinciali. Lo faremo tra alcuni mesi. Le forze politiche all’unisono annuirono.
Cosicché enti vecchi ed enti nuovi convissero e seguitano a convivere, perché quel rodaggio, provvisorio per definizione, non è mai terminato. In Italia, d’altronde, l’unica cosa stabile è la precarietà. Ciò detto, va da sé che se le Regioni fossero state capaci di assorbire le competenze degli enti territoriali destinati a morire, oggi, anzi ieri, sarebbe stata automatica la soppressione delle Province. Le quali invece non hanno mai smesso di lavorare, e di rendersi utili, mentre le sorelle maggiori non hanno neppure principiato a farlo. Il bilancio di queste ultime parla chiaro: l’80 per cento delle uscite serve per pagare le spese della sanità, che potrebbero essere saldate comodamente da un ente unico, dato che il denaro proviene dalle casse dello Stato.
In sostanza, il nostro Paese tiene in piedi-20 apparati colossali e iperburocratizzati, trasformatisi negli anni (come si evince dalle numerose inchieste giudiziarie in corso) in associazioni per delinquere, macchine specializzate nello sperpero dei nostri quattrini, fonti di corruzione, mangiatoie incontrollate, soltanto per garantire al cittadino una gestione più o meno buona (spesso pessima) della salute pubblica. Viceversa le Province, il cui smantellamento è stato rimandato per quasi mezzo secolo, si sono consolidate dimostrando di essere insostituibili per il semplice fatto che le Regioni non sono attrezzate a sostituirle nel disbrigo delle pratiche ordinarie.
Ormai però è passato il concetto (sbagliato) che gli storici enti siano superflui e vadano pertanto urgentemente cancellati, ma non completamente. In altri termini, stando alla legge appena approvata, essi muteranno faccia e status, i consigli non saranno più eletti, ma non cesseranno di svolgere le tradizionali funzioni non delegabili per i motivi già spiegati. Risultato, tanto clamore per niente. I costi non diminuiranno. Non valeva la pena di riformare le Province (poiché ciò non porta alcun vantaggio né alcun risparmio): semmai bisognava rassegnarsi ad «abbattere» le Regioni ovvero a ridurle a tre o quattro macroregioni, al fine di stroncare il malaffare endogeno, di cui chiunque ha contezza.Non c’è un solo ente di questo tipo che non sia oggetto d’indagini della magistratura e che non abbia contribuito, in misura spaventosa, all’aumento (insostenibile)del debito pubblico.
Siamo consapevoli di predicare nel deserto. Fra l’altro noi stessi fummo promotori della soppressione delle Province, in base alle considerazioni espresse all’inizio del presente articolo. Tuttavia, constatato che le Regioni non sono all’altezza di supplire alle competenze dei più piccoli enti territoriali (tanto che questi rimangono in vita sia pure sotto mentite spoglie), decidiamoci a mandarle in pensione. Smetteranno almeno di fare danni. E i conti dello Stato ne trarranno enormi benefici.