Intorno al cantiere il funerale è la battaglia operaia e più in generale della città che non si rassegna all’ultima chiusura simbolo di un modello che vacilla sempre di più: barricate, scontri davanti alla Prefettura con la polizia che carica con i caschi blu e i manganelli i residui di una classe operaia oramai meticcia e ridotta a poche centinaia di lavoratori tecnici, più uomini da computer che idraulici, saldatori, siderurgici, tute blu e marroni, dentro ai bacini che hanno preso il posto degli scali di alaggio sui quali le navi venivano alla fine completate, prima di scivolare in mare dopo il fatidico ordine alla madrina: “ In nome di Dio, madrina taglia” e la madrina tagliava il nastro della bottiglia di champagne. E la bottiglia si frantumava sullo scafo grezzo, ancora da verniciare con i colori magici della flotta, le bordonature eleganti e la nave scivolava tra gli applausi, sollevando ai lati quegli spruzzi bianchi dell’acqua che diventava il suo elemento e poi, miracolosamente come pareva, galleggiava nel tripudio e nell’orgoglio di avere costruito un bastimento perfetto.
Scena che non c’è più, perchè oggi le navi, i bastimenti, le grandi ammiraglie lunghe 350 metri del boom crocieristico, alte come grattacieli, a Sestri e negli altri sette cantieri italiani della azienda post Iri, non scivolano più ma si alzano dentro a bacini riempiti d’acqua, dentro i quali i pezzi della nave sono messi insieme come in un gigantesco Lego, in un maxibricolage e poi l’acqua irrompe sollevando il gigante sopra la base di costruzione.
Un altro mondo, ma i simboli e la storia non si cambia e tutta Sestri non solo gli operai, scende in piazza, in questa delegazione che sta già digerendo lo choc del prete Satana, don Riccardo Seppia, parroco proprio là sopra, sulla collina che domina il cantiere. Si chiudono i negozi, si organizzano proteste trasversali politicamente e ecomomicamente, perchè è come se a questo posto estirpassero l’anima. L’anima era quel cantiere che è come un muro in fondo a due strade della stretta costa genovese di ponente. Dentro quasi un migliaio di operai, per l’esattezza 890, ma intorno un indotto brulicante di competenze specifiche, di piccole aziende capaci di costruire come nessuno un’elica, la camicia di un pistone, di quelli che muovono i motori nelle pance delle navi, quelli che avete visto andare a mille nel film della tragedia del Titanic, pompare forsennatamente la forza propulsiva verso la gigantesca elica del bastimento record, che correva contro l’iceberg affilato della sua tragedia, così simile a quella dell’Andrea Doria.
Nessuno costruisce bene come i genovesi di questo mondo naval operaio meccanico, che ha resistito intorno alla Fincantieri di Sestri. Chiedono quei pezzi da mezzo mondo e se il cantiere chiude quelle competenze si sbriciolano con le generazioni che perdono l’arte sopraffina.
Perché Genova, perché Sestri dovrebbe esalare l’ultimo respiro, dopo tante agonie, tante sofferenze per restare a galla, non nel bacino che si riempie per il varo, ma nell’economia globalizzata, dove la costruzione delle navi negli ultimi trent’anni ha così tanto modificato le sue prospettive, facendosi mangiare il terreno dai concorrenti tedeschi, ma sopratutto dai cantieri coerani. Laggiù corrono tutti gli armatori del mondo a farsi costruire le navi, quelle da crociera ma anche le supertank o quei mostri da decine di migliaia di portacontainer che solcano gli oceani?