ROMA – Le auto che si guidano da sole, figlie dei film di fantascienza, sono diventate finalmente realtà? Se la risposta non può ancora essere un convinto sì, per Google sono decisamente più vicine di quanto potessimo mai immaginare.
Se il sogno di una “self-driving car” inizia con l’arrivo delle auto già negli anni Quaranta, è solo a partire dagli anni Ottanta che la tecnologia e l’informatica fanno i passi necessari per la costruzione dei sensori e dei Gps che guideranno le auto del futuro.
In un reportage per The New Yorker il giornalista Burkhard Bilger ricostruisce insieme a Anthony Levandowski, ingegnere del progetto Google X, i passi che hanno condotto il colosso di Mountain View verso la realizzazione di un prototipo di auto in grado di guidarsi da sola. Una “self-driving car“ che dispone dei sensori più potenti e della tecnologia più all’avanguardia.
Una Lexus e una Prius, questi i modelli su cui l’ingegnere Levandoswski, 33 anni, lavora insieme a Sebastian Thrun, 46 anni, esperto di robotica che è a capo del Google Car Project. Ogni lunedì nel “quartier generale” di Google X le migliori menti si incontrano e discutono i progetti. Scadenze necessarie perché la Google Car possa diventare un vero e proprio prodotto che circola nelle strade e non rimanga solo un’idea di auto rivoluzionaria, ma in quanto tale pura utopia.
All’esposizione General Motor Futurama del 1939 davanti allo stand del futuro si vedevano grattacieli altissimi, autostrade giganti e macchine senza autista: “Vi sembra incredibile? E’ il mondo del futuro, nel 1960”. L’idea di un’auto che si guida da sé era già presente, non è stata certo partorita da Google, spiega Levandowski: “Non abbiamo inventato nulla, l’idea c’era già. Siamo solo stati fortunati che i computer e i sensori adatti a realizzarla fossero pronti per noi”.
“Prima del 2000 non c’erano mezzi per produrre qualcosa di interessante”, spiega Thrun al The New Yorker, ma ora la tecnologia c’è e si vede. La Lexus, primo modello provato da Bilger al fianco di Levandowski è stata pensata e progettata per guidare sulle strade in mezzo al traffico. Ad un occhio inconsapevole potrebbe sembrare una comune Lexus: sedili in pelle, rifiniture di lusso in legno, porta bicchieri e casse Bose.
Ma dietro quell’aspetto che di cibernetico non ha nulla, c’è un tripudio di sensori interfacciati a software che sono in grado di calcolare le distanze tra le varie auto, il flusso del traffico, rallentare, accelerare e il volante ruotare e condurre la macchina da solo, in piena autonomia. E se l’auto segnala qualche pericolo, quasi conscia della sua fallibilità, ecco i segnali sonori che arrivano e chiedono al guidatore (umano) di prendere il controllo del volante.
La Prius invece è destinata ai soli tragitti in autostrada, ma il viaggio a fianco di Dmitri Dolgov, altro programmatore del team, non è andato altrettanto bene. Qualche errore di giudizio, da parte dell’auto, vicino ad un’uscita dell’autostrada. Qualche accelerata e brusca frenata, che Dolgov ha registrato sul suo pc. Annotazioni per riprogrammare quei difetti ed eliminarli.
Guidare 100mila miglia su una strada pubblica e in sicurezza: questo l’obiettivo di Sergey Brin e Larry Page per la loro auto. Un percorso in cui il guidatore non debba toccare il volante nemmeno una volta, o ricorrere ai freni, pur essendo nel pieno centro abitato di San Francisco. Le Google Car ad oggi hanno percorso più di 500 milioni di miglia, quasi 800 milioni di chilometri, senza causare un incidente. Circa il doppio della distanza percorsa da un americano medio prima di rimanere coinvolto in un incidente stradale. Le 100mila miglia restano un obiettivo non facile da centrare, ma di certo non impossibile per il team di Google, convinto di raggiungerlo entro il prossimo anno.
Idea base è che le macchine apprendano il percorso: non un mero eseguire di ordini, ma un vero e proprio apprendimento della più fine intelligenza artificiale. Sentire i dislivelli della strada o l’angolazione di una curva e adattare il movimento al nuovo percorso, che non è più una semplice linea retta priva di sobbalzi.
Esaminare tutte le variabili poi non è certo facile: cosa farebbe l’auto se un gatto attraversasse la strada? E se fosse un bambino a correre a recuperare la palla? E se dal tir avanti a noi in autostrada cadesse un materasso o un altro oggetto ingombrante? Anche la questione “morale” della guida va insegnata all’auto, che deve imparare se attraversare o meno un incrocio in cui un autista potrebbe decidere di darci la precedenza nonostante sia lui ad averla.
Insomma se per Google la loro macchina che si guida da sé tra 5 o 10 anni sarà una realtà delle nostre strade, portando maggiore sicurezza per tutti coloro che sono, o meno, al volante, restano ancora delle questioni irrisolte. La macchina è (quasi) pronta, i brevetti ed i sensori ci sono, ma Google resta un’azienda di software e produttrice di innovazione, non di auto.
“Il costo di quest’auto non mi interessa”, dice Brin, ma a chi vorrà comprarla probabilmente sì. E poi quale sarà la casa automobilistica disposta a produrla e venderla? Senza contare poi che la naturale diffidenza dell’uomo verso la tecnologia non renderà all’auto che si guida da sé l’ingresso nel mercato così facile come si potrebbe pensare. La “self-driving car” è passata dalla fantascienza alla realtà, ma queste solo alcune delle domande che restano in sospeso perché il colosso di Mountain View possa vedere le sue auto passare dalla realtà alla strada.