C’è un altro fattore che potrebbe aver contribuito a innalzare l’Italia sul podio della ricchezza delle famiglie. Trattasi dell’elevato tasso di lavoro nero che, come noto, dilaga nella penisola, stimato in modo assai variabile fra il 15 e il 30 per cento del prodotto lordo. Se il fenomeno, tanto più aleatorio da quantificare per via della materia trattata, superasse le prudenti valutazioni Istat, ne risulterebbe che il reddito ufficialmente disponibile delle famiglie sarebbe inferiore a quello effettivo e quindi il rapporto tra il patrimonio e il reddito disponibile risultante dalle statistiche ufficiali sarebbe superiore a quello effettivo. Il lavoro nero contribuirebbe a spiegare anche la particolare capacità degli italiani nel risparmiare e nell’accumulare ricchezza familiare, malgrado i loro “bassi” redditi medi dichiarati.
Bolla o non bolla, le prospettive per la ricchezza delle famiglie italiane, comparata con quella degli altri paesi, non sono rosee: non tanto per i piccoli segnali ricordati all’inizio, quanto per un’importante tendenza di fondo che si sta manifestando ormai da quasi un paio di decenni, la riduzione del risparmio. Fino alla fine degli anni Ottanta dell’Italia si poteva dire, modificando leggermente quanto scolpito sul Colosseo quadrato dell’Eur, che era un paese popolato da santi, poeti, navigatori e… risparmiatori. Ancora nel 1990 le famiglie mettevano da parte quasi il 22 per cento del loro reddito. Da allora sta avvenendo una metamorfosi di massa: le formiche si stanno trasformando in cicale. Oggi il tasso di risparmio è al 6,8 per cento, meno di un terzo di vent’anni fa. Complice la crisi, senz’altro, e il desiderio di non contrarre troppo i consumi, ma in altri paesi – come si vedrà – non è andata allo stesso modo.
Se è vero che il legame tra risparmio e ricchezza non è strettissimo e immediato, poiché sul breve-medio periodo la ricchezza è influenzata soprattutto dall’andamento dei valori delle sue componenti, e quindi in particolare dalle variazioni dei mercati dei titoli, dei metalli preziosi, dei beni artistici e degli immobili, è altrettanto vero che sul medio-lungo periodo un basso tasso di risparmio non può non influenzare negativamente il livello del patrimonio detenuto. Per evitare un tale esito infausto occorre innanzitutto che si realizzi una ripresa della crescita del Pil ai livelli di qualche anno fa. Se poi consideriamo la classifica internazionale della ricchezza familiare, il rischio di perdere posizioni è aumentato dal combinato disposto del nostro trend calante di risparmio e di quello crescente di altri paesi, in primis gli Stati Uniti, un popolo di assolute cicale fino a poco tempo fa ma che negli ultimi tempi ha compiuto un’inversione di marcia (dallo zero per cento del reddito disponibile nel 2007, il risparmio ha raggiunto il 6,3 nel 2010).
Inevitabile, prima di concludere l’escursione nella ricchezza degli italiani, evocare i polli di Trilussa (“secondo le statistiche d’adesso/risurta che te tocca un pollo all’anno:/e, se nun entra ne le spese tue,/t’entra ne la statistica lo stesso/perché c’è un antro che ne magna due”): anche il patrimonio si distribuisce in modo del tutto sperequato tra le famiglie come i pennuti del poeta romanesco? La crisi ha indubbiamente contribuito ad accelerare un processo di concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Secondo Bankitalia, nel 2009 il decile superiore delle famiglie (il dieci per cento più benestante) possedeva il 45 per cento della ricchezza, mentre ai cinque decili inferiori (il 50 per cento delle famiglie con meno mezzi) ne possedevano solo il 10 per cento.
Quello di una nuova ondata di concentrazione dei patrimoni è da almeno un paio di decenni un fenomeno mondiale, causato anche dallo sviluppo delle nuove tecnologie e dalla globalizzazione. In questo quadro, però, il caso italiano è un po’ anomalo. Innanzitutto perché durante gli ultimi tre anni di crisi la concentrazione (che si misura con un apposito indice statistico, quello di Gini) da noi risulta immutata (0,613). Inoltre e soprattutto perché il peso preponderante dell’immobiliare sulla ricchezza complessiva, in un paese dove quasi l’80 per cento delle famiglie possiede una casa in proprietà, fa sì che le sperequazioni siano in qualche misura attenuate e inferiori a quelle registrabili in nazioni dove prevale la ricchezza costituita da attività finanziarie (il già citato indice di Gini ci conferma che Italia e Francia hanno una distribuzione del patrimonio meno concentrata che Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna).
Morale della “favola”: non fasciamoci la testa solo perché i depositi bancari sono leggermente diminuiti e crescono un po’ i debiti (fra l’altro le famiglie italiane hanno le più basse passività finanziarie), cioè prima di essercela rotta; cerchiamo però di procurarci un casco che ci protegga dai veri pericoli incombenti: la caduta del risparmio e il crollo dei valori immobiliari. Un casco che non potrà chiamarsi altrimenti che “crescita”.