Sembra la sceneggiatura di Tutta la vita davanti, commedia agrodolce di Virzì sulla vita impossibile dei giovani sfruttati nei call center. Ma i sei mesi di umiliazioni subiti da Rebecca Sagheddu, se dovessero essere accertati i fatti denunciati dalla ragazza, raccontano una storia esemplare delle sofferenze verissime di una lavoratrice italiana. Tra assurdi rifiuti alla richiesta di andare in bagno, pretese di orari prolungati senza alcuno straordinario riconosciuto e continue minacce di licenziamento nel caso in cui non riuscisse a raggiungere i risultati stabiliti, l’impiego presso un call center di Quartu, in provincia di Cagliari, si è trasformato in un incubo.
Al termine di sei mesi logoranti per il corpo e per il morale, tra giugno e dicembre 2008, Rebecca è stata licenziata. E ha deciso di non accettare l’ennesimo sopruso, presentando una denuncia che ha portato al rinvio a giudizio dei due titolari del call center Alphacom: dal 17 marzo Francesca Ciancilla e Simone Sanna dovranno rispondere in tribunale all’accusa di estorsione.
Secondo la querela presentata dalla Sagheddu i quindici lavoratori dell’Alphacom avevano il compito di chiamare le case di mezza Sardegna per chiudere un determinato numero di contratti telefonici. Ma da quando l’azienda ha perso un’importante commessa la situazione era degenerata: tra insulti e maltrattamenti, Rebecca ha dovuto affrontare turni di lavoro straordinari senza alcuna retribuzione extra, venendo minacciata di perdere il lavoro e arrivando persino all’umiliazione di vedersi negati cinque minuti di pausa o il permesso di andare al bagno.
Tesi smentita dai difensori di Sanna e Ciancilla, secondo cui nessun altro lavoratore dell’azienda si è mai lamentato degli orari, né ha mai parlato di minacce e privazioni. E sottolineando che il rischio di licenziamento è intrinseco in questo tipo di accordi di lavoro: “nei contratti a progetto c’è un obiettivo minimo da raggiungere: in caso contrario, la stessa legge prevede il licenziamento”.
*Scuola di Giornalismo Luiss
