Caracciolo voleva per il risorto Telegrafo, che sarebbe tornato al nome Tirreno assunto dopo la Liberazione, un giornalista livornese, per rinnovare le glorie del fondatore, il garibaldino Giuseppe Bandi, che era nato in provincia di Grosseto. Prese il volume con i nomi di tutti i giornalisti italiani e arrivato a metà dell’elenco dei professionisti (fatica non improba perché il numero era piccolo) scovò il nome di Lenzi. Chiese referenze ad Amerigo Terenzi, altro grande dell’editoria italiana, capo azienda di Paese Sera. Terenzi gli disse: “Lenzi è bravissimo, ma ha un carattere orribile”. Caracciolo aveva un debole per la gente non convenzionale, tanto che arrivò anche a amare Berlusconi, fino a quando quest’ultimo gli fece lo scherzetto dell’accordo sottobanco e illegittimo con le figlie e i nipoti di Arnoldo Mondadori (come racconta Nello Ajello nel suo libro intervista “Un editore fortunato”).
Il giudizio di Terenzi su Mario Lenzi fu per Caracciolo un incentivo, Lenzi, che si era visto respingere da Terenzi e dal partito il progetto di un grande giornale popolare nazionale sotto forma di catena di giornali locali, accettò la proposta e fu subito amore e successo.
Lenzi si insediò nell’appartamento di Ciano all’ultimo piano del bell’edificio razionalista che ancor oggi è sede del giornale, poche ore di sonno e poi redazione, incontri con chiunque avesse voce nel territorio, tipografia. Mise a punto un sistema editoriale autonomo, che ha resistito fino a poco fa nei giornali locali del Gruppo Espresso, con l’aiuto di un tecnico livornese, Pietracaprina, un genovese trapiantato, Paolo Montani, un vecchio giornalista e compagno di grande umanità e capacità professionale e di lavoro, Carlo Pucciarelli, un grafico nobile montenegrino, Petrovic e ancora altri pionieri di cui ricordo solo il nome di Pernazza. Con questa squadra, che farebbe arricciare il naso a qualsiasi consulente un po’ chic, negli anni successivi Lenzi si imbarcò poi nel salvataggio (giornali veneti) o nel lancio (Centro) di altre testate.
Nell’impresa del Tirreno Caracciolo affiancò a Lenzi Amedeo Massari, anche lui toscano di Cinignano (Grosseto), ma esattamente l’opposto di Lenzi sia fisicamente, sia culturalmente, sia ideologicamente. Di Massari fu l’idea di affidare la produzione dei giornali in crisi o da avviare a delle cooperative di tipografi. Il presupposto era che i tipografi padroni di se stessi sarebbero stati meno esosi dei colleghi a padrone. L’idea funzionò a Livorno e anche a Padova per una ventina d’anni, ma al cambio di generazione dei tipografi rivelò i suoi limiti e i cooperanti diventarono dipendenti.
Assieme, Lenzi e Massari fecero il miracolo a Livorno, poi Massari passò con Berlusconi, che ha sempre avuto per lui rispetto, stima e affetto. Massari si trovò bene con Indro Montanelli, direttore del Giornale di cui Massari diventò amministratore delegato, mentre non si era trovato bene nelle precedenti esperienze in cui l’ho conosciuto: con Piero Ottone al Secolo XIX di Genova, con Giovanni Giovannini nella holding editoriale fatta da Caracciolo con il cognato Gianni Agnelli, con Eugenio Scalfari. Massari aveva un gran carattere, troppo per i personaggi che ho nominato, che vivevano di quotidiani mentre per Berlusconi il Giornale era una virgola nel suo sistema di televisioni che stava nascendo. E naturalmente Massari non andò d’accordo neppure con Lenzi, che nacondeva, sotto la dolcezza dei modi, un carattere d’acciaio che gli occhi celesti tradivano.
Non li ho visti lavorare assieme, ma ricordo i racconti di Caracciolo, che si divertiva a vederli litigare e li aveva battezzati Bibì e Bibò. C’è da dire che nemmeno tra Lenzi e Scalfari c’è mai stata attrazione fatale: li dividevano le origini, la classe sociale, la cultura, la fede politica, le lealtà e le appartenenze, Scalfari era padrone, Lenzi era dipendente, al fondo c’era la contesa per l’amore del Principe e anche per la destinazione delle risorse da assegnare allo sviluppo delle testate. Scalfari, sbagliando, vedeva i giornali locali come dei concorrenti, non pensando, come sosteneva Luigi Bianchi, altro grande direttore del Tirreno e successore di Lenzi, che “se la moglie del fornaio di Monsummano per sbaglio gli porta a casa Repubblica invece del Tirreno, quello quando si sveglia e lo scopre la riempie di botte”. Lenzi riconosceva a Scalfari il primato, ma il suo sogno era che i quotidiani locali, tutti assieme, superassero in tiratura complessiva Repubblica.
