L’uscita di Massari segnò una svolta importante nella cultura dell’Espresso, perché nessuno di quanti subentrarono nel tempo fu mai persona di carattere e visione comparabili, mentre i giornali continuarono a prosperare. Furono anni in un certo senso magici, quelli a cavallo tra i ’70 e gli ‘p80, perché tra Repubblica che stava avviandosi a essere il primo giornale d’Italia con Scalfari, l’Espresso che vinceva i referendum, con Livio Zanetti e il Tirreno, la Nuova Sardegna e il Mattino di Padova che risorgevano, dalle ceneri o dal nulla, Caracciolo dimostrava di essere il grande editore del dopoguerra.
Il successo dei giornali dimostrava anche che l’elemento cruciale perché un giornale si affermi è il direttore. Lenzi, Scalfari e Zanetti, presero delle redazioni improbabili di cassintegrati, ragazzi del movimento, transfughi della stampa comunista (in realtà grande scuola professionale in alternativa a quella del Corriere, cui a Torino attinse a piene mani un altro titano del nostro giornalismo, Giulio De Benedetti) e ne fecero delle redazioni che tennero e tengono posizioni di primato ancor oggi.
Sono entrato all’Espresso verso la fine di questa età dell’oro, quando ormai incombeva la vendita alla Mondadori. Ho lavorato per molti anni accanto a Lenzi e mi è stato fratello maggiore, amico e maestro. Era per e un mito da quando, nel 1965, scoprii il suo “Dizionario di giornalismo” e lo imparai quasi a memoria e fu la mia salvezza quando, in un quotidiano che ora non c’è più, il Cittadino di Genova, mi misero, forse con la speranza che inciampassi, dalla sera alla mattina a passare pagine e pagine di giornale. A quei tempi c’era il piombo, la produzione era complessa ma io avevo imparato tutto grazie a Lenzi: contare le battute degli articoli e dei titoli, definire gli ingombri in pagina di titoli, pezzi e foto. Fu la mia salvezza.
Quando lo incontrai, Lenzi era già andato oltre il piombo, era passato ai computer, alle nuove tecnologie di preparazione e aveva scommesso sull’intuizione che l’Italia sarebbe cresciuta e la crescita avrebbe assorbito gli esuberi indotti dalle ristrutturazioni. Ne era convinto un altro grande del giornalismo e dell’editoria, Giovanni Giovannini, che si giocò il posto di presidente della Editrice la Stampa per avere violato gli ordini di Cesare Romiti di non fare apertura alcuna, con il cappello di presidente degli editori italiani, in materia di orario di lavoro dei tipografi, a fronte degli esuberi per tecnologie. Era il contratto di lavoro del 1981, quello che portò, attraverso i prepensionamenti in massa dei poligrafici, alla salvezza e al rilancio dei giornali italiani. Ma Romiti voleva che Giovannini tenesse duro, per poter poi fare a sua volta concessioni in materia ai metalmeccanici senza che nulla fosse stato compromesso, in quegli anni di slogan del tipo lavorare meno lavorare tutti e il salario è una variabile indipendente.
Lenzi, senza aspettare il contratto, aveva già fatto tutto, nella sua Livorno, nel suo Tirreno. Segnò una svolta epocale e l’avvio di una stagione di successo che continua. Sostenne sempre, con ragione, che la scelta giornalisticamente giusta è anche la scelta giusta, a medio lungo termine, sul piano industriale.
Ma la tecnologia è come un manichino senz’anima, se un giornale non ha idee e le sue idee non trovano riscontro presso i lettori. Lenzi aveva elaborato, anni prima, la teoria dei tanti giornali locali di servizio, ciascuno per uno dei cento campanili che più alti svettano in Italia, con tante edizioni e sub edizioni, tenuti assieme dall’elemento politico unificante delle cronache nazionali comuni. Il Pci, però, come ricordato prima, dismise l’dea come impossibile. In Caracciolo trovò un editore disponibile e in Massari un profeta insuperabile, che moltiplicò le edizioni del Tirreno, ben oltre le province della Toscana costiera.
L’idea di Lenzi era tanto giusta che stravinse nel tempo ed è tutt’ora vincente, dopo i brevi detours imposti dalle ambizioni regionalistiche di direttori emergenti: la vendita delle copie e le ricerche di mercato confermarono che le regioni sono una espressione geografica, che, nella gran parte d’Italia, l’identità è data dalla città, massimo dalla provincia.
