L’idea di Lenzi, a considerarla tutta, era poi che il Grande Fratello Mario avrebbe governato quell’intrico di direttori, capi redattori, capi servizio, comitati di redazione, con dolce ma inesorabile fermezza e, almeno con la prima generazione di direttori di quotidiani locali, che ne riconoscevano l’indiscussa autorità. Le cose si fecero più complesse con l’avvento della nuova ondata di direttori, con l’allargamento dei quotidiani locali a nuove testate (il gruppo della Gazzetta di Mantova, il Piccolo di Trieste, il Messaggero di Udine) con percorsi culturali, politici, professionali e anche industriali autonomi (da gente come Gigi Riccadona, Lorenzo Bertoli, Carlo Melzi avevi solo da imparare).
Lasciò l’Espresso alla fine degli anni ’90 per andare all’Unità, convinto dalla sirena Veltroni, dalla santa obbedienza che accomunava preti e vecchi militanti e dal sogno, che non poteva capire chi non conoscesse quel lontano rifiuto, di far vedere al suo vecchio partito chi fosse il Mario Lenzi che quei burocrati si erano lasciati scappare.
Non ce la fece, perché mancava l’editore e Veltroni o D’Alema non sono nemmeno l’ombra di Caracciolo.
Gli anni erano passati e Lenzi tornò all’Espresso ormai oltre la settantina e si rimboccò le maniche, mettendosi a lavorare, per ore e ore, accanto ai giovani, italiani e extracomunitari, che avevano dato vita al supplemento di Repubblica dedicato agli immigranti, Metropoli. Insegnava a scrivere, insegnava giornalismo.
Gli ultimi anni li ha passati a Cortona. Ha scritto alcuni articoli per Blitzquotidiano, lucidi, tersi, giovani. Poi è arrivata la morte della moglie, compagna e sostegno per tutta la vita. Gli ho parlato alcuni mesi fa, era stanco, non aveva più voglia di scrivere.
