ROMA – La riforma delle televisioni a cui sta lavorando il presidente del Consiglio Mario Monti non è la prima del genere. Il Corriere della Sera ripercorre una storia di riforme iniziata negli anni Ottanta, nel periodo in cui la nascita e l’ascesa delle reti Mediaset e delle emittenti locali ha fatto esplodere la concorrenza.
Nel 1990 fu la volta della legge Mammì, dal nome dell’allora ministro repubblicano Oscar Mammì, che definì un primo insieme di norme organiche per il piccolo schermo, ma ha di fatto legalizzato la conquista delle tv senza regolamentarla.
Sei anni dopo, nel 1997, arriva la legge Maccanico: cercando di riequilibrare il sistema televisivo, depotenzia Retequattro, mandandola sul satellite, e RaiTre, privandola della pubblicità. Alla fine però non va in porto: una clausola inserita nel testo finale dice che la rete di Emilio Fede andrà sul satellite quando in Italia ci sarà “un congruo numero” di parabole. Viene poi prorogato al 2006 il catasto delle frequenze, ovvero la mappa di chi detiene le tv e dove.
Nel frattempo, nel 2001, anche senza un catasto, la legge Amato apre il commercio delle frequenze. Tre anni dopo, nel 2004, la legge Gasparri che sancisce il passaggio dall’analogico al digitale, finisce nel mirino dell’Unione europea, che apre una procedura di infrazione contro il governo Berlusconi. L’accusa è di voler spostare il sistema televisivo sul digitale mantenendo le posizioni dominanti attraverso un meccanismo di conversione che favorisce il duopolio Rai-Mediaset penalizzando Telecom Italia Media.
Il successivo governo Prodi decide di fissare un tetto alla pubblicità di Mediaset, facendo passare al digitale terrestre una rete Mediaset e una Rai. Ma il governo cade e quello di Berlusconi inventa il beauty contest. Nonostante Bruxelles lo consideri un modo per favorire “i soliti”, il governo riesce a vincere sull’Ue, e Mediaset e Rai ottengono le frequenze migliori.
Ora, però, tra crisi e governo tecnico, il ministro dello Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni Corrado Passera ritiene “intollerabile” il regalo delle frequenze mentre si chiedono sacrifici a tutti, e così il beauty contest sembra destinato a saltare a favore di un‘asta competitiva, come quella fatta per la telefonia mobile, e che ha portato allo Stato oltre quattro miliardi. Le frequenze che dovrebbero essere messe ora all’asta, infatti, potranno essere usate sia per la televisione sia per la telefonia.
