Ora si deve sempre ricordare che senza Marchionne la Fiat forse non ci sarebbe più, travolta dagli effetti del ventennio seguito alla estromissione di Vittorio Ghidella, a sua volta seguita alla prima grande vittoria aziendale sui sindacati, nella primavera del 1980: una crisi che però conferma che non di solo controllo della forza lavoro, condizione necessaria ma non sufficiente, vivono le aziende e che servono anche idee, progetti, creatività, uomini, soldi.
Ma si deve anche ricordare che, salvando la Fiat, Marchionne non ha conseguito lo stato di divinità, infallibile e indiscutibile. Sarebbe stato giusto, ma forse ormai è troppo tardi, chiamarlo a spiegare, a chiarire, a prendere impegni. Era interesse di tutti, della sinistra ma anche del sindacato, della destra ma anche del Governo. La Fiat non è marginale, non solo perché è rimasta l’unica grande industria italiana degna di quel nome, ma perché il suo peso nell’economia italiana è tale che non si può pensare di sostituirla tanto facilmente.
L’Inghilterra ha potuto rinunciare, con le sue miniere di carbone, all’industria dell’auto, inventando posti di lavoro inutili (che ora pensano però di tagliare) per cui le risorse sono state date da una trasformazione in centrale finanziaria. Ma l’inglese è la lingua franca del mondo e la deregulation che ha travolto la Gran Bretagna, unita allo sviluppo post unione europea ha fatto di Londra una Svizzera civile e simpatica, rifugio ideale per ricchi e arricchiti (più o meno lecitamente) di mezzo mondo.
L’Italia, isolata dal punto di vista linguistico, irretita nelle sue leggi e regolamenti, rischia solo l’isolamento e il declino.
Mentre eravamo tutti focalizzati sulla lotta di Mirafiori, nessuno o quasi (Mauro Coppini lo ha fatto, su Blitzquotidiano) ha pensato a chiedere a Marchionne cosa voglia fare fino in fondo della Fiat, tutti hanno tranquillamente e semplicemente accettato che la Fiat italiana diventi una succursale, che la Chrysler diventi la padrona, quella Chrysler finita già più di una volta nei guai e dove i tedeschi della Mercedes, che proprio gli ultimi non sono, hanno lasciato qualcosa di più di dieci miliardi di dollari. Nessuno chiede cosa ci sia sotto, quale sia il disegno finale, dove risiedano gli interessi individuali di proprietà e management.
Tutti hanno preso come ineluttabile il calo delle vendite Fiat e la perdita di quota di mercato, nessuno si è chiesto se dipendano dalla mancanza di modelli, di organizzazione della rete, semplicemente di teste pensanti.
Nessuno si domanda quanto su Marchionne influisca l’appagamento dell’io (che deve essere smisurato, a giudicare dalla assoluta mancanza di rispetto per gli altri che denuncia l’eterno maglione) e quanto le condizioni poste da Barack Obama, presidente all’epoca degli accordi e ancor oggi fortissimo, a fronte di un Silvio Berlusconi già allora fiaccato come un toro dai picadores dall’azione congiunta di Procure della Repubblica, legittima moglie e opposizione giornalistica. Quanto abbia influito un sindacato fortissimo, con un rilevante peso politico e elettorale, la Uaw (United auto workers) americana, contrapposto a un sindacato italiano distratto, esecutore e non ispiratore di azione politica.
Eppure c’è qualcosa nella azione di Marchionne che non torna. Non si può pensare che un uomo intelligente come lui identifichi nelle pause pranzo degli operai la causa della poca produttività italiana, ignorando l’arretratezza delle nostre banche, il groviglio della burocrazia e delle leggi, la ridicolaggine di un ministro delle Finanze che dichiara guerra all’art. 41 della Coostituzione, sapendo che non si andrà mai da nessuna parte però fa titolo sui giornali e piace alla parte più tartassata della Padania, invece di mettere assieme un po’ di esperti di diritto amministrativo (e tutti i partiti ne hanno di eccellenti) e riformare in concreto le regole più astruse e contraddittorie.
Qualcosa di più serio deve essere all’origine del divario di crescita del pil, da uno a tre, fra Italia e Germania, paese socialista quanto il nostro anzi di più e non basta a spiegarlo la dimensione del mercato domestico dopo l’annessione della ex Ddr.
Se è così, c’è poco da entusiasmarsi per la vittoria del sì a Mirafiori, inutile la lotta per gli irriducibili del no. Il destino della Fiat come primaria azienda italiana sembra segnato. Non resta che augurarci che Marchionne abbia più successo a Detroit che a Torino, e più successo di quei burocrati crucchi della Mercedes, nel risollevare l’azienda americana, in modo che gli ex stabilimenti Fiat e Alfa Romeo, guida e orgoglio della classe operaia, funzionino almeno a pieno ritmo, come le linee di imbottigliamento della Coca cola. Altrimenti la classe operaia sarà in paradiso, ma i suoi figli resteranno tutti all’inferno e un po’ di carbone incandescente brucerà anche tutti noi.
