Fucilato per tre volte dagli americani, è morto nel suo letto sette decenni dopo, all’età di 99 anni: questa è la storia dell’aviere Giuseppe Giannola, sopravvissuto alla battaglia di Biscari, l’aeroporto vicino Caltagirone che i nazifascisti dovevano difendere dallo sbarco degli Alleati nel luglio del 1943.
Giannola aveva 26 anni quando gli angloamericani sbarcarono in Sicilia. Fra le poche resistenze che incontrarono sulla loro strada ci fu quella di due guarnigioni di avieri che avevano il compito di difendere l’aeroporto di Santo Pietro, Biscari per gli alleati. Dopo una notte di bombardamenti, lo scalo è accerchiato.
È la mattina del 14 luglio 1943. Giannola non fa parte della prima guarnigione catturata dagli americani, che viene interamente fucilata, dopo essere stata spogliata di vestiti, scarpe e oggetti di valore, per ordine del capitano John Compton. Di questo gruppo solo due si salvano: il caporale Virginio De Roit e il soldato Silvio Quaiotto, che ai primi colpi scappano verso il torrente Ficuzza.
Ma la sorte di Giannola è rinviata solo di qualche ora. Viene catturato insieme ad altri cinquanta. Gli ordini sono di scortare il gruppo ai comandi per farlo interrogare, ma il sergente Horace West decide di farli fucilare tutti, dopo avergli fatto togliere scarpe e divisa. Una storia che l’aviere è riuscito, per miracolo, a raccontare:
«Sono stato colpito subito: un proiettile mi ha spezzato il polso e mi sono buttato a terra. Ho fatto solo in tempo a fissare l’immagine di quel sergente gigantesco, con il tatuaggio sul braccio, che impugnava il mitra. Poi i corpi degli altri mi sono caduti addosso. Non vedevo nulla, sentivo solo quegli scoppi che non sembravano finire mai. Prima raffiche lunghe, quindi delle esplosioni secche, sempre più rare. Erano i colpi di grazia».
Nel libro “Uccidi gli Italiani”, (Mursia, 2012, 230 pagine), il senatore Andrea Augello (ex Msi e An), ricostruisce la vicenda di Giannola insieme a quelle di altri come Luz Long, il campione tedesco di salto in lungo battuto dall’americano Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936 e morto proprio quel 14 luglio 1943 con la divisa da artigliere del 1° reggimento della Lufwaffe “Hermann Göring”. Ma torniamo all’italiano col polso rotto da un proiettile, che si fingeva morto nascondendosi sotto i cadaveri dei suoi commilitoni:
«Io stavo fermo, con il braccio infuocato e la faccia che si copriva del sangue dei miei amici. Sono rimasto immobile per un paio d’ ore, finché il silenzio non è diventato totale. “Se ne sono andati”, ho pensato. Lentamente, quasi paralizzato dalla paura, ho spostato i corpi e mi sono alzato. Ho fatto solo in tempo a guardarmi attorno ed è arrivata la fucilata. Ricordo il botto e il calore che mi bruciava la testa. Sono caduto, sorpreso di essere ancora vivo. Il proiettile mi ha preso di striscio, scavando un solco tra i capelli: sarebbe bastato un millimetro più giù per ammazzarmi. Con terrore ho cercato di non respirare. Sapevo che ci doveva essere qualche americano lì intorno, appostato per non lasciare nessuno vivo. Con la faccia a terra credevo di non avere più scampo. Invece nulla».
Neanche questa volta i proiettili degli americani sono riusciti ad ammazzare Giannola. Il quale qualche ora più tardi si rialza per una seconda volta:
«Non so quanto tempo sia passato. Mi dicevo: “Non muoverti”. Ma avevo sete. Il polso spezzato e la ferita alla testa bruciavano. Il dolore ha superato la paura. Mi sono mosso carponi, temendo un altro sparo. Ho camminato così fino a una strada sterrata. Vedevo in lontananza delle colonne di camion americani. Non si sentiva più la battaglia. È passata un’ambulanza e si è fermata. Si sono resi conto che ero un italiano, ma mi hanno dato da bere e bendato le ferite con attenzione. Poi a gesti mi hanno fatto capire di restare vicino alla strada: “Verranno a prenderti”.
Io mi sono seduto: avevo solo i pantaloncini, il resto del corpo era impastato di terra e sangue. È arrivata una jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato la carabina, ha mirato al cuore e ha sparato».
La pallottola gli perfora un polmone, uscendo dalla spalla. Non muore neanche questa volta. Arriva un’ambulanza che lo porta all’ospedale da campo di Scoglitti. Due giorni dopo viene imbarcato in una nave diretta al Nord Africa, dove continua la sua degenza in ospedali da campo inglesi. Nel frattempo il Regio esercito lo sospetta per diserzione, anche quando, nel marzo del 1944, viene fatto rientrare in Italia per essere ricoverato nell’ospedale militare di Giovinazzo.
Finita la prigionia, l’ultimo giorno del 1945 Giannola denuncia quello che gli era successo alle autorità italiane. Denuncia che ripresenta il 21 agosto del 1946 e ancora il 4 marzo del 1947, stavolta al Comando Aeronautica della Sicilia. Rimane inascoltato perché il quadro politico è mutato e inglesi e americani foraggiano e controllano l’Italia, nazione sottomessa e sconfitta, più che alleata.
Giannola trova lavoro come postino e non riuscirà a far sentire la sua voce fino al 2004, quando assistito dal figlio Riccardo riesce a raccontare la sua storia alla procura militare di Padova, che aveva aperto un fascicolo sui crimini di guerra del capitano Compton. Nel giugno del 2012, quasi 70 anni dopo la sua triplice fucilazione, Giannola riceve un’onorificenza dalla Repubblica italiana: Giorgio Napolitano gli appunta al petto la medaglia di Ufficiale al merito. È morto nella sua Palermo il 4 dicembre 2016.