Il modello dei due studiosi prevede altre misure collaterali, anche tenendo conto che è previsto il mantenimento in vita pure delle attuali forme contrattuali. Fra le misure d’accompagno, la fissazione di un salario minimo per tutti i contratti. Inoltre i contributi previdenziali e per gli ammortizzatori sociali, nei casi in cui si volessero continuare ad utilizzare contratti a tempo determinato, dovrebbero essere aumentati, in modo da raggiungere quelli per i lavoratori a tempo indeterminato nel primo caso (ora per i contratti a termine sono inferiori) e per superarli nel secondo (considerato che i rischi di ritrovarsi in stato di disoccupazione sarebbero alquanto maggiori). In altre parole, vi sarebbe un complesso di interventi che disincentiverebbe fortemente il ricorso al tempo determinato e aprirebbe la strada al successo del contratto unico. Contratto, va aggiunto, che non è stato pensato solo per l’ingresso dei giovani al lavoro ma è studianto anche per i disoccupati brizzolati, per le donne che vogliono rientrare al mercato del lavoro quando i figli sono più grandicelli, ecc.
Personalmente, pur condividendo l’analisi su cui è basata la proposta Boeri-Garibaldi, non sono molto convinto della suddivisione tra un periodo di prova (tre mesi), uno di inserimento (tre anni con protezione indennitaria) e uno di stabilità (tutto il resto della vita lavorativa). Non mi pare che in tal modo vi sia un’adeguata discontinuità rispetto agli attuali contratti a tempo indeterminato, anche se, certamente, il progetto è più di altri digeribile dai sindacati. Meglio sarebbe se a un periodo iniziale, ipoteticamente di tre anni e con una protezione indennitaria limitata, ma forse con un limite massimo di età, ne seguisse un altro – che potrebbe durate per gran parte del percorso lavorativo – con protezione indennitaria crescente. Un esempio con dati modificabilissimi: dopo 10 anni di lavoro, in caso di licenziamento spetterebbe un’indennità pari a 20 mesi di retribuzione; dopo 20 anni di lavoro, un’indennità pari a 40 mesi di retribuzione; dopo 30 anni pari a 60 mesi di retribuzione.
Indennità “pesanti”, nell’esempio improvvisato, ma che potrebbero in molti casi risultare interessanti per entrambe le parti. Si potrebbe inoltre pensare a una decrescita dell’indennità durante gli ultimi lustri di lavoro, onde evitare che qualcuno, “furbetto” e dotato di alternative di occupazione, puntasse a farsi licenziare a tutti i costi per poter passare alla cassa. Un meccanismo del genere di quello ipotizzato (i numeri, ripeto, sono del tutto indicativi) potrebbe contribuire a limitare il fenomeno dei licenziati di mezza età (o quantomeno a dar loro un forte sostegno economico), di quella fascia over 45 e under 60, “troppo anziana per lavorare e troppo giovane per la pensione”.
Il “progetto Ichino” è sostanzialmente diverso da quello Boeri-Garibaldi, anche se in una certa misura le due proposte potrebbero integrarsi. Riguarderebbe le nuove assunzioni in un regime contrattuale particolare, liberamente concordato nelle diverse realtà tra aziende e sindacati. Le parti si accordano nel costituire un’agenzia che gestirebbe sia un meccanismo di assicurazione contro la disoccupazione che un servizio di riqualificazione e reinserimento al lavoro dei licenziati. L’agenzia garantirebbe al neo-disoccupato un’indennità, aggiuntiva a quella già esistente di disoccupazione, tale da garantirgli nel complesso il 90 per cento della retribuzione il primo anno, l’80 il secondo, il 70 il terzo e il 60 il quarto anno senza lavoro, termine ultimo per la superindennità (tutto ciò assomiglia molto al sistema adottato in Danimarca). Vincolo aggiuntivo: la durata massima di quello speciale trattamento di disoccupazione non può superare quella del rapporto di lavoro intercorso, detratto il primo anno. Il licenziato non ha solo l’“onere” di incassare: deve impegnarsi “a partecipare a tempo pieno a tutte le iniziative di riqualificazione e ricerca della nuova occupazione attivate per lui”, pena la perdita di tutti i benefici.
