ROMA – Alle ultime amministrative il calo dei votanti è stato netto. Nelle votazioni siciliane appena concluse è diventato drastico. “Le crisi economiche spolpano la democrazia perché riducono drasticamente l’interesse dei cittadini per la cosa pubblica”, scrive Massimo Gramellini su La Stampa di oggi. Ma perché qui, in Italia, oggi e così drasticamente e repentina la velocità con cui si manifesta l’astensione elettorale? Cinquanta per cento dei votanti effettivi o anche meno non è “poco” in assoluto e chi è eletto con queste percentuali di partecipazione al voto non è meno legittimato di altri. Però in Italia la partecipazione al voto sta precipitando di colpo e di botto. Che non sia solo sfiducia, che sia anche altro e cioè il crollo de voto di scambio perché tanto si sa che chi viene eletto non avrà in mano una lira, pardon un euro? Non verrà anche da lì il 54% di astenuti in Sicilia?
Le risposte a questo interrogativo sono diverse e molteplici. Come scriveva all’indomani dei ballottaggi di maggio Roberto D’Alimonte, la disaffezione che si traduce in non voto ha, tra le sue cause, anche la crisi in senso stretto, persino strettissimo. Crisi vuol dire meno denaro a disposizione e meno denaro a disposizione della politica significa anche meno denaro per il voto di scambio. Tradotto, mancano i soldi per comprare i voti e quindi meno voti affluiscono nelle urne. Comprare non necessariamente nell’accezione criminale o corruttiva, comprare anche e soprattutto con iniezioni di denaro pubblico sul territorio sociale e geografico cui si chiede di essere eletti. E’ stata ed è ancora questa del distribuire denaro pubblico la funzione principe della politica e l’unica riconosciuta dalla gente. Ora che l’autobus su cui questa funzione viaggia vistosamente rallenta, la gente-elettorato scende dal bus.
Altra e probabilmente più profonda parte della risposta alla domanda sul perché la politica sia ormai quasi aliena rispetto alla “gente” la fornisce proprio Gramellini nel suo Buongiorno. Scrive il vicedirettore de La Stampa:
“(…) fino a pochi anni fa una doppia mazzata come quella di ieri avrebbe creato sconquassi umorali nel Paese. Il politico italiano più conosciuto nel mondo condannato a sette anni e interdetto dai pubblici uffici per reati odiosissimi. Una ministra della Repubblica costretta ad andarsene a casa (pardon, in palestra) per avere evaso le imposte sugli immobili. E invece, se si escludono i giornalisti, i politici e le tifoserie strette, l’impressione è che ormai questi eventi scivolino addosso agli italiani senza lasciare altra impronta che un sospiro di fastidio misto ad assuefazione. L’assillo economico ha scompaginato le priorità, persino quelle dell’ira. Chi non dorme la notte per un mutuo da pagare o un figlio da occupare non riesce a eccitarsi per delle partite di giustizia e potere che si dipanano in un altrove da cui non pensa di poter trarre benefici concreti. Le crisi economiche spolpano la democrazia perché riducono drasticamente l’interesse dei cittadini per la cosa pubblica. Il vero confine, oggi, non è più fra chi sta con i magistrati e chi no, ma fra chi crede ancora nel futuro e chi no. Per rimanere in ambito femminile, Ruby e Idem turbano i sonni degli italiani molto meno di Iva. Esiste solo una donna che potrebbe svegliarci da questo incubo e si chiama Speranza”.
La crisi quindi come principale indiziata di questa disaffezione. Crisi che taglia i fondi per comprare i voti e crisi che modifica le priorità. Due verità assolute ma, forse, due verità che non spiegano il tutto. Due verità che anche i sondaggi rilevano, come quello diffuso ieri dal Tg di Enrico Mentana che fotografava una situazione per alcuni versi paradossale con tutti i partiti perdono voti.
La crisi ha certo le sue responsabilità ma la politica ne ha di più. Se infatti i politici fossero in grado di fornire risposte, soluzioni, quello che Gramellini definisce in una parola “futuro”, allora la gente avrebbe altrettanto certamente un approccio e un’affezione assai diverse nei confronti di questa. La risposta allora è forse propria questa: l’incapacità della politica di fornire risposte. In fondo la politica è sì la gestione della cosa pubblica, ma era anche, almeno una volta, quella cosa che costruiva il futuro. Una volta.