E’ la giustificazione automatica di ogni dittatore alle prese con una rivolta interna, e Gheddafi ha rispettato il copione: accusare le potenze straniere di fomentarle. Nel caso libico il raìs, almeno in questa circostanza, ci aveva visto giusto: la Francia ha fornito effettivamente armi e istruttori militari ai ribelli della Cirenaica, ben prima della risoluzione 1973 dell’Onu che imponeva il “cessate il fuoco” e una no-fly zone a difesa dei civili. Mortai, mitragliatrici, batterie antiaeree, carri armati, qualche aereo, tutto questo ha portato in dote il governo francese, camuffato da aiuti umanitari. Violando, sostanzialmente, la stessa risoluzione che esclude in maniera categorica forze d’occupazione sul terreno. Ufficialmente gli aerei alleati, con i bellicosi francesi in testa, si limitano a bombardare dal cielo le postazioni del regime. Ma alla luce dei documenti svelati dal quotidiano satirico ma informatissimo Canard enchainé (una sorta di Dagospia cartaceo) e rilanciati in Italia dal quotidiano Libero, acquista un sinistro rilievo l’accusa di un Le Pen: “La Francia ha premeditato la guerra”.
I francesi non sono soli: coinvolti nella preparazione del rovesciamento di Gheddafi sono anche i servizi britannici e quelli egiziani del dopo-Mubarak. Ai primi di marzo la notizia del clamoroso fallimento di una missione segreta britannica fu fonte di ironie e sarcasmo: due agenti dell’MI6 (intelligence) e 8 incursori delle Sas (reparti speciali) furono catturati dai ribelli a Bengasi appena atterrati in elicottero. Li avevano scambiati per mercenari al soldo di Gheddafi: in realtà erano lì per sostenerli. L’imbarazzato governo britannico ammise la loro presenza già da tre settimane giustificandola come un supporto preventivo nell’eventualità che qualche pilota fosse abbattuto.
Inoltre, come ha rivelato Libero, Parigi si era già assicurata i servigi dell’ex braccio destro di Gheddafi Nourr Mesmari, che in cambio dell’asilo politico, ha messo a disposizione della Francia tutte le informazioni necessarie per un attacco.
Insomma, è proprio vero, come sostiene Giuliano Ferrara, che in guerra l’umanitarismo è una “maschera ideologica”. Sotto la maschera c’è un presidente che riscopre una grandeur posticcia, ammantata di ideali fumosi, che puzza di benzina. Osservando la distribuzione geografica delle riserve petrolifere balza agli occhi che il grosso è controllato da Bengasi. L’obiettivo minimo, con il Colonnello confinato a Tripoli, è già stato raggiunto. La richiesta italiana, di procedere con cautela e preservare l’indivisibilità della Libia non era campata in aria. Interessi per interessi, la competizione è fra la Total e l’Eni per il controllo degli idrocarburi: non è un principio edificante, ma almeno sapremmo perché ci siamo imbarcati in questa avventura. “Noi italiani realizziamo circa 244 mila barili all’anno, la francese Total appena 66 mila. Chi ha dunque più interesse a cambiare lo status quo in Libia?” ricorda Gennaro Malgieri del Pdl.
In Francia Sarkozy si gioca il secondo mandato ergendosi a paladino delle popolazioni arabe oppresse da indegne classi dirigenti. Lo seguono i grandi giornali, Le Monde in testa, e l’amico Figaro. Il cui editore, Serge Dassault, per caso è proprietario della Dassault Aviation che costruisce i Mirage con cui si bombarda Gheddafi. Dassault non ha il vizio dell’ipocrisia: “Quando si vende del materiale è perché i clienti se ne servano.”