“Carissime e carissimi, ancor prima di ascoltare le parole del presidente del Consiglio ho deciso di rassegnare le mie dimissioni da presidente della Camera dei deputati. Ho deciso di farlo ancor prima di sapere se il signor Giancarlo Tulliani mi abbia ingannato. Ormai non mi sembra più questo il punto. Mi dimetto perché la democrazia è a rischio, perché chiunque dissenta dal capo supremo può diventare oggetto di un pestaggio politico e mediatico senza precedenti, me ne vado anche perché non posso accettare che un ministro, mi riferisco a Bossi, possa consentirsi di oltraggiare il tricolore e definire porci tutti gli abitanti della Capitale, senza che nulla accada, senza che il presidente del Consiglio faccia almeno finta di chiedergli le dimissioni”.
“La mia non è una resa, ma un gesto di sfida, infatti le collego alla richiesta di una immediata apertura in quest’aula di una discussione sulla questione morale e alla contestuale approvazione di un codice etico che, a partire dalla mia vicenda, sia applicato e applicabile a chiunque di noi, a partire dal presidente del Consiglio”.
“Le mie dimissioni, dunque, sollecitano le dimissioni di chiunque sia già stato condannato, a partire da quelle dell’europarlamentare Marcello Dell’Utri, oppure le dimissioni di chi si sia salvato solo ricorrendo alla prescrizione, qui non faccio nomi per non beccarmi un altro dossier, per non parlare di chi è già stato rinviato a giudizio per corruzione di magistrati, finanzieri, poliziotti, oppure di chi è già sotto inchiesta per associazione di tipo mafioso o camorristico”.
“Mi è stato chiesto di spiegare come possa essere credibile che io nulla sapessi dei traffici di Tulliani, i medesimi inquisitori, invece, non hanno ritenuto di chiedere al presidente del Consiglio come possa aver ospitato per anni a casa sua un mafioso e come mai gli abbiano creduto, senza rotolarsi dalle risate, purtroppo ho fatto finta di credergli anche io e sono arrivato a votare alcune leggi della vergogna, come il primo lodo Alfano e la legge Gasparri, quella che gli ha consegnato il controllo definitivo del polo Raiset, quello che ora mi sta bastonando, con la sola eccezione, ma guarda la vita, proprio di quelle reti, di quelle trasmissioni, di quei giornalisti che, un tempo, anche io chiamavo “comunisti””.
“Forse qualche errore l’ho commesso anche io, ma adesso non è certo il tempo delle recriminazioni postume, ora è il momento di costruire un argine che possa fermare l’alluvione, la melma, il fango che rischia di travolgere tutto e tutti, a partire dalla Costituzione e dalla legalità repubblicana…”
Naturalmente questa lettera è falsa, probabilmente Fini non la scriverà mai, ma forse avrebbe fatto bene a pensare, a dire e magari a scrivere qualcosa di simile, anche nei giorni scorsi.
Mercoledì Fini e il gruppo di Futuro e Libertà non potranno certo votare la fiducia a Berlusconi, qualsiasi cosa faccia o dica, se lo faranno si saranno condannati alla morte politica, i dossier avranno centrato il bersaglio, i dissidenti saranno stati domati a suon di manganellate mediatiche.
Non abbiamo nulla da suggerire al presidente della Camera, ma se fossimo in lui, prima della recita di Berlusconi nell’aula della Camera dei deputati, troveremmo il modo di anticiparlo, di sfidarlo, di sorprenderlo, esattamente come accadde quando decise di puntargli il dito di sfida sotto il naso, sotto il palco, davanti ai fedelissimi che non avevano mai visto nulla di simile nel tempio del partito azienda.