Come si fa in questi casi, il consiglio di amministrazione mi nominò condirettore e mi diede l’incarico di studiare un quotidiano per la Sicilia tutta, un quotidiano del mattino con grandi ambizioni, almeno sulla carta. L’ordine, mi dissero, veniva da Roma, da Botteghe Oscure. Accettai per convinzione e per disperazione. E in testa mi brillò un pensierino: è la volta che vado da Lenzi. Lo chiamai e andai a via Po, la sede storica del Gruppo Espresso-Caracciolo. Gli raccontai la storia. Lui mi guardò e mi disse con sorriso gelido e bonariamente sadico: “Del Giudice, stai facendo le stesse cazzate che ho fatto io nella vita”. Poi mi spiegò come fare il progetto e mi diede appuntamento per cinque-sei settimane dopo.
Lavorai giorno e notte, più che il progetto mi interessava il giudizio di Mario Lenzi. Non so se per narcisismo o per autolesionismo, volevo quel giudizio. Tornai da lui con le mie carte. Mi salutò con una stretta di mano e mi mise a sedere come si fa con gli alunni impertinenti. Lesse, rilesse, frugò, andava avanti e indietro con le pagine. Poi alzò gli occhi e mi disse: “Del Giudice, se vuoi lo firmo insieme a te”. Io farfugliai un sì che quasi svenivo, come quella mattiva che mi aveva telefonato Scalfari. Il progetto era all’altezza, ma l’editore di Botteghe Oscure non aveva un centesimo. Lasciai mestamente “L’Ora” e me ne tornai a Milano, con armi, bagagli e famiglia.
Mario mi aveva seguito, ci sentivamo spesso e lui mi incoraggiava, mi chiedeva pazienza: nel Gruppo non si muoveva nulla, stante la “Guerra di Segrate” fra Berlusconi e De Benedetti. Io campavo di lavoretti, mi chiamarono Renzo Foa e Peppino Caldarola a “L’Unità”, con un vero gesto umanitario. Ma il vecchio nucleo storico del giornale “comunista” non è che mi amasse poi tanto. Era il 1991, l’anno del congresso di Bettino Craxi a Bari. L’occasione per Ferdidando Pinto, uomo di Craxi e gestore del Petruzzelli, di imbastire un accordo fra craxiani e ambienti dalemiani per far nascere a Bari un quotidiano. Io che ormai ero considerato un sapiente dei progetti di giornali che non si sarebbero mai fatti, fui naturalmente incaricato. Ne parlai con Mario, mi misi al lavoro, col retropensiero che magari la faccenda sarebbe interessata col tempo al Gruppo Caracciolo. Nel lavoro mi aiutarono Adriano De Concini, amministratore del “Tirreno” e Amato Mattia, amministratore de “L’Unità”. Cotto e mangiato.
Lo portai a Mario Lenzi: mi guardò, mi sorrise e, per il da farsi, mi passò a Corrado Passera, all’epoca, subito dopo il passaggio della proprietà alla Cir, amministratore delegato del Gruppo Espresso. Passera mi ricevette con grande cortesia, mi fece partecipe del suo parere favorevole, poi concluse: “Bello davvero, ma a noi non interessa. Perché lei piuttosto non torna a lavorare con noi?” Bella domanda, mi dicevo fra me e me, me la dia lei la risposta. Ci lasciammo così.
