Pochi giorni dopo, era la fine di ottobre, il Petruzzelli bruciava, Pinto finiva nei guai (poi assolto), e nelle fiamme andava in cenere anche il mio bel progetto. Punto e daccapo, con Marta di 4 anni e Pietro di due mesi. Chiamai Mario, mi invitò a passare da lui. “C’è un posto di caporedattore in una città del Nord, più precisamente a Mantova, alla Gazzetta”. Da quando? “Da domani”. Grazie Foa, grazie compagni dell’Unità.
A Mantova ricominciò la mia vita. Andrai in avanscoperta con Gigi Carletti, nel giornale più antico d’Italia appena confluito nel Gruppo Espresso da Mondadori. Padre-padrone era il direttore Bulbarelli, un ex-tipografo protoleghista furbo e allergico alla nuova proprietà. Bulbarelli si difendeva con tutti i mezzi dall’intrusione del nuovo editore e cercava continui motivi di rottura. “Tu resisti e fatti picchiare – mi diceva Mario – ma resisti. Fra un po’ ti mando il nuovo direttore”.
Arrivò Sergio Baraldi, il mio vecchio invidiato compagno di banco di “Paese sera”. Mario ci aveva messi assieme perché eravamo amici ma anche diversi. Era nato il Parlamento di Mantova, io ero considerato “terrone e comunista”, al punto che anche Roberto Colaninno considerava “inopportuna” la mia presenza nella città dei Gonzaga. Colaninno era consigliere di amministrazione, Lenzi era direttore editoriale, con poteri di vita e di morte su tutti i giornalisti della Finegil. Ogni tanto il mio amico Lenzi mi faceva delle lavate di testa, davvero ingiustificate, anche con lettere dure. Poi mi telefonava: “Se ti cazzio io è per proteggerti, se lo fanno gli altri è per licenziarti”. Lezione di vita.
A Mantova divenni vice-direttore e condirettore, alla faccia di chi mi voleva male. Poi un giorno Mario mi telefonò per dirmi: “Vai a Pescara, al Centro”. Da quando? Mi informai. “Da ieri”. Lui colse il mio disappunto (neanche stavolta mi faceva direttore) e mi disse: “Ho capito, ma te lo devi conquistare”. Dopo sei mesi di Pescara, mi telefonarono a distanza di dieci minuti, lui e Marco Benedetto, per annunciarmi la novità. Mario: “Sei il direttore del Centro, non mi far fare cattiva figura”. Marco: “Sei il direttore del Centro, in tre anni lo salvi o lo chiudi”.
Ho sentito Mario, per l’ultima volta, due mesi fa. Avevamo appuntamento a Cortona, sapevo che non stava bene e volevo vederlo. La sera prima del giorno fissato, lo sento concitato al telefono: “Antonio, ti prego di scusarmi. Non venire domani, non sto bene, non esco di casa. Ti chiamo quando sto meglio, anche io voglio vederti”. In questi due mesi, ho avuto notizie da Caterina, sua figlia. L’ho sentito da lontano spegnersi lentamente. Fino alla telefonata di Caterina, due giorni fa. Non è tempo di retorica, che lui mi ha insegnato a disprezzare, come mi ha insegnato a disprezzare il servilismo. Di lui ho un ricordo marchiato a fuoco. Mi disse una volta il professor Vacca: “Tonino, sai che cosa mi ha detto Lenzi? Mi ha detto che ha tre figli più Antonio Del Giudice”. Sì, è vero, ho perso un padre.
