ROMA – Lo spumante italiano, in casa Milan, era in fresco dalla stagione 2003-2004. Poi è venuta Calciopoli, la stagione degli scudetti revocati e del dominio interista. Sette anni di attesa (in mezzo i rossoneri hanno comunque avuto modo di consolarsi con una Champions League), l’era più lunga di astinenza da quando Silvio Berlusconi è presidente.
Il digiuno è finito sabato sera allo Stadio Olimpico contro la Roma, stessa squadra (ma a campo invertito), contro cui i rossoneri avevano festeggiato l’ultima volta. Al Milan bastava il pari, alla Roma no. E’ stata partita vera: lottata, sofferta a tratti persino bella. Lo “spettacolo” più particolare, però, è in tribuna Vip: corre il minuto 21 del secondo tempo quando, dopo un tiro non indimenticabile di Riise, le telecamere di Sky pizzicano Adriano Galliani raccolto a mani giunte e capo chino. Sembra evidente che stia pregando. Si attendono smentite.
Alla fine conta però il risultato: punteggio, 0-0, che significa campionato finito con due turni e mezzo (anomalia di uno spezzatino portato un po’ troppo in fondo alla stagione) da giocare. Il Milan ha 9 punti sull’Inter e ai nerazzurri non basterebbe arrivare alla pari causa legnate prese in entrambi i derby. Rossoneri campioni d’Italia, con pieno merito.
Come ha più volte spiegato Mario Sconcerti, sia su Sky sia sulle colonne del Corriere della Sera, a vincere è stata la squadra “meno imperfetta”. Senza togliere nulla al Milan, sia chiaro. I rossoneri sono una grande squadra e il campionato lo hanno vinto dopo essere stati quasi sempre in testa. Forse non hanno mostrato la superiorità dell’Inter dell’ultimo lustro ma hanno vinto in modo netto e indiscutibile.
Il punto, piuttosto, è che il Milan quest’anno è sembrata sì una grande ma una grande italiana. Quanto all’Europa, invece, manca ancora qualcosa. Forse più di qualcosa. I risultati dicono che è bastata una squadra inglese di medio livello, il Tottenham, per eliminarla dalla Champions. Lo stesso Tottenham che al turno dopo è stato spazzato via dal Real Madrid senza neppure un briciolo di pathos e che l’anno prossimo, a meno di sorprese a oggi non immaginabili, la Champions neppure la giocherà. In coppa contro il Milan ci si è messa anche la sfortuna, è vero. Ma la grande squadra è tale proprio perché più forte anche degli eventi negativi.
Adriano Galliani, del resto, lo ha detto a più riprese: “Il nostro obiettivo, quest’anno, è il campionato”. Dichiarazione da manager consumato che cozza, ma solo un po’, con quellla che è la storia e la bacheca del Milan targato Berlusconi. Galliani lo ha detto (e alla luce del mercato di gennaio ha anche agito di conseguenza) perché lo sapeva: la rosa del Milan bastava per l’Italia, mentre per tornare competitivi in Champions c’è ancora molto da fare. Meglio concentrarsi su di un obiettivo possibile e vincerlo piuttosto che vagheggiare imprese fuori portata per rimanere senza niente in mano.
Quanto alla squadra Milan, quello vinto oggi è il primo scudetto di un allenatore, Massimiliano Allegri, che fino ad un anno fa allenava in provincia, a Cagliari. Galliani lo è andato a prendere dopo un esonero. Il nome non ha da subito scaldato il cuore dei tifosi: dopo un lustro di egemonia interista c’è stato più di qualcuno che ha storto la bocca. Invece il toscano il cui cognome non riflette il personaggio (voce bassa, eloquio lento, ritmo narrativo alla Sergio Leone) ha messo a posto gli scettici. Innanzitutto il Milan ha giocato come voleva lui e non come voleva Berlusconi. Equilibrio e sostanza prima dello spettacolo. Non che a San Siro abbiano visto un calcio brutto, per carità. Però Allegri ha capito subito che un Milan solo a trazione anteriore, magari con un tridente fisso, sarebbe scoppiato. Allora ha iniziato con le scelte.
La prima (Berlusconi deve averla digerita con fatica, solo a forza di risultati) è stata il “prepensionamento” di Ronaldinho. Ad allegri il brasiliano non serviva a nulla e, col massimo della diplomazia consentita dalle parti di Milanello, lo ha fatto capire nel modo più chiaro possibile. A forza di esclusioni. E’ finita che, a gennaio, il brasiliano ha levato e Allegri, per qualche ora, si è trovato con un problema in meno. Poi è arrivato Cassano.
L’attacco, appunto. In mezzo cotanta abbondanza, il tecnico ha fatto capire subito come stavano le cose. Uno, quello che i campionati li vince sempre anche da solo, era il titolare inamovibile: Zlatan Ibrahimovic. Gli altri dovevano ruotare. Anche se si chiamavano Pato, Robinho e da gennaio Cassano. Senza dimenticare lo sfortunato Inzaghi che aspettiamo al controsorpasso europeo su Raul l’anno prossimo.
Poi, è qui Allegri è stato “aiutato” dagli infortuni, l’esclusione di Pirlo. Una scelta, se si guarda agli ultimi 10 anni di Milan e di Nazionale, che rasenta la blasfemia. Ma il tecnico del Milan ha rischiato e ha avuto ragione. Per innescare Ibra non serviva un regista col contagiri. Serviva, invece, una mediana di mastini. Quanto al regista, c’era, ma più avanzato. Ovvero Seedorf.